Con questa parabola Gesù ci richiama l'irreparabile eternità delle pene dell'inferno. È un discorso duro, ma viene dalle labbra di Gesù. Siamo avvertiti: non possiamo affidarci a una "misericordia" che non trovi corrispettivo nella nostra carità. Finché siamo quaggiù abbiamo tempo per compiere il bene, e in tal modo guadagnarci la felicità eterna: poi sarà troppo tardi. Gesù dà un senso anche alle sofferenze di Lazzaro: le ingiustizie terrene saranno largamente compensate nell'altra vita, l'unica che conta. Abbiamo il dovere di far conoscere a tutti, cominciando dalle persone che amiamo, la logica della giustizia divina: e questa è la forma più squisita della carità. C'è un ribaltamento tra le sorti terrene dei due uomini. Segue un dialogo tra il ricco e Abramo. In mezzo ai tormenti il primo si rivolge al patriarca chiedendogli di mandare Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnargli la lingua. Ma si sente rispondere da Abramo che nella vita, lui ha ricevuto i suoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora Lazzaro è consolato, lui invece è in mezzo ai tormenti. Occorre vivere il presente come l'oggi di Dio, sapendo che ci sarà il giudizio di Dio alla fine dei tempi, nel quale l'Onnipotente ci chiamerà a rendere conto del nostro comportamento e «renderà a ciascuno secondo le sue opere». Ma il ricco insiste, pregando Abramo di inviare Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli di cambiare vita, ammonendoli «severamente» su ciò che li attende dopo la morte. Si sente però rispondere che hanno Mosè e i Profeti e devono ascoltarli. Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti. La fede si fonda sull'ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture dell'Antico e del Nuovo Testamento. Il ricco è condannato perché indifferente e chiuso agli altri, egoista. Le persone che non amano, non hanno carità, le istituzioni che non sono al servizio dei cittadini e del bene comune, davanti a Dio, sono come inesistenti.
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